Audizione Befree Commissione dei diritti umani presso il Senato

Ieri Be free cooperativa è stata audita dalla Commissione dei diritti umani presso il Senato della Repubblica, relativamente al fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e alle criticità del sistema italiano, che appare non in grado di garantire una reale tutela delle donne sopravvissute a quella che l’ONU ha definito una delle più atroci violazioni dei diritti umani.
Pubblichiamo di seguito l’intervento
fonte: http://www.senato.it/notizia?comunicato=116301

Indagine conoscitiva su livelli e meccanismi tutela diritti umani: audizione in Commissione

11 Febbraio 2020

La Commissione Diritti umani, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani vigenti in Italia e nella realtà internazionale, martedì 11 febbraio, ha svolto l’audizione di Oria Gargano, Francesca De Masi e Carla Quinto, della cooperativa BeFree, sul fenomeno della tratta.

Alla c.a. Di
COMMISSIONE PER I DIRITTI UMANI
PRESSO IL SENATO DELLA REPUBBLICA
Gentilissima Presidente,
Gentilissimi membri della Commissione dei diritti umani del Senato,
a nome di Be free cooperativa contro tratta violenze e discriminazioni vi ringraziamo
sentitamente dell’opportunità di essere ascoltate relativamente al fenomeno della tratta di
esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, che rappresenta secondo l’ONU una delle più
gravi violazioni dei diritti umani e che colpisce soprattutto donne e minori, fenomeno di cui
bisogna riconoscere pertanto la specificità di genere, così come ricordato anche dalla Direttiva
2011/36/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione
e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.
Be free cooperativa è una cooperativa di donne, nata nel 2007, con l’intento di mettere al
centro la lotta contro la violenza maschile contro le donne, la tratta, le discriminazioni, secondo
un’ottica improntata al genere, in cui i fenomeni di cui si occupa vengono analizzati e
contrastati partendo dall’assunto che non si tratta di fenomeni neutri, ma strettamente
connessi ai rapporti di potere gerarchico tra uomini e donne che permeano le nostre vite, e alla
strutturazione di ruoli sociali fortemente schiacciati su categorie di dominio (degli uomini) e
subordinazione (delle donne).
Per questo motivo, i servizi frontali, contro la violenza e contro la tratta, gestiti da Be free sono
visceralmente legati alla consapevolezza che non esiste alcuna “neutralità”, quando si parla di fenomeni quali l’immigrazione o la tratta di esseri umani, ma questi sono imprescindibilmente
connessi con la visione delle donne e coi ruoli di subordinazione che le donne rivestono, in Italia
come nelle altre parti del mondo.
È con questa impostazione e con questo approccio che gestiamo centri antiviolenza, case
rifugio e case di fuga nel comune di Roma e Fiumicino, in provincia di Viterbo, a Campobasso,
Termoli, Isernia, e in provincia de L’Aquila. Siamo inoltre attive in progetti finanziati dalla
Unione Europea, e riceviamo grants dal Fondo contro la Schiavitù delle Nazioni Unite. Abbiamo
inoltre pubblicato diversi volumi sulle tematiche proprie della nostra attività – ricordiamo nello
specifico, in questa Sede, “Storie di Ponte e di Frontiere” (2011) e “Inter/rotte – Storie di tratta
percorsi di resistenza” (2016)

BE FREE E LA TRATTA
Per quanto riguarda il contrasto al traffico degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale
e/o lavorativo, Be free è parte del Progetto “Piano regionale antitratta Lazio ”, che ha come
capofila la Regione Lazio, nell’ambito del Bando 3/2018 “Programma unico di emersione,
assistenza ed integrazione sociale a favore degli stranieri e dei cittadini di cui al comma 6 bis
dell’art. 18 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, alle vittime dei reati previsti dagli articoli
600 e 601 del codice penale, o che versano nelle ipotesi di cui al comma 1 del medesimo articolo
18”, finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri.”
All’interno del suddetto progetto, la cooperativa ha diversi compiti:
– Svolge attività di emersione delle vicende di tratta e sfruttamento sessuale, quando
queste ultime sono ancora “indicibili”, “invisibili”, sommerse. Lo fa presso il CPR PONTE
GALERIA, con uno sportello psico-sociale e legale a favore delle donne trattenute e su
segnalazione di CAS, SPRAR, Enti del privato sociale, Commissioni territoriali, ecc., presso
gli uffici della cooperativa o nelle sedi più diverse, a seconda delle necessità delle donne
da incontrare
– Gestisce una casa di fuga nel territorio regionale, per donne sopravvissute alla tratta
(capienza: 5 posti letto);
– Segue a livello legale e processuale le donne che hanno espresso la necessità di
denunciare lo sfruttamento, attraverso l’Ufficio legale che la cooperativa mette a
disposizione, e formato da Avvocate specializzate.

IL PROCESSO DI IDENTIFICAZIONE DELLE VITTIME DI TRATTA: PUNTI DI FORZA E CRITICITA’
Una delle questioni centrali nell’emersione di potenziali vittime di tratta risiede nell’
identificazione: il processo di identificazione è quel processo virtuoso che permette di
riconoscere una persona come vittima di tratta, allo scopo dell’accesso ai cosiddetti programmi
di protezione sociale e alla tutela dei suoi diritti. Riconoscere che quella che abbiamo davanti è
una possibile vittima di tratta è un processo che richiede tempo, una relazione di fiducia con le
operatrici, in cui la donna possa trovare l’agio di aprirsi rispetto alla propria storia di vita e
superare la legittima diffidenza e la paura di raccontarsi. Molto spesso ostacoli di natura
diversa rendono questa fase estremamente complessa, e il sistema italiano è assolutamente
carente rispetto all’obbligo di riconoscere le vittime di questo specifico reato, anche ribadito
dalla Direttiva Vittime della EU (Direttiva 2011 36 UE), sovente disattesa.
Diversi sono i motivi.
Il più rilevante appare essere di forte valenza politica: l’attuale sistema di identificazione si
fonda sulla necessità di sicurezza pubblica interna, trascurando la tutela dei soggetti
vulnerabili. Le legislazioni nazionali delegano infatti alle forze dell’ordine, spesso prive di
formazione sul tema, l’identificazione di tutti i migranti, tra cui le vittime di tratta. La restrizione
delle politiche migratorie messe in campo dall’Unione Europea ha fatto sì che la lotta
all’immigrazione irregolare diventi prioritaria rispetto alla comprensione dei meccanismi molto
spesso di sfruttamento e violenza che ci sono dietro alla mancata regolarizzazione; facciamo
l’esempio a questo proposito di quello che accade dentro al CPR Ponte Galeria, in cui vengono
trattenute le persone senza permesso di soggiorno, e all’interno del quale Be free ha il compito
di scavare dentro alle motivazioni per cui queste donne non hanno il permesso di soggiorno:
molto spesso rileviamo che la mancanza di permesso di soggiorno è strettamente connessa alla
violenza e allo sfruttamento subiti e alla impossibilità fino a quel momento di far emergere le
violazioni di diritti a cui le donne sono state sottoposte.
Emblematico a tal proposito è il caso delle donne nigeriane fermate per la strada mentre sono
costrette alla prostituzione e portate direttamente al CPR, allo scopo del rimpatrio, senza una
preventiva disanima di quelli che sono gli indicatori di una possibile storia di sfruttamento
sessuale alle spalle. Vengono messe nel calderone dei “migranti irregolari”, quando invece
spesso sono appunto vittime di tratta, quindi titolari di diritti ai sensi del nostro contesto
normativo, e un eventuale rimpatrio le metterebbe a forte rischio della incolumità personale.
Relativamente alle difficoltà incontrate nel processo di emersione, vorremmo sottoporre la
storia di una giovane donna nigeriana ( i riferimenti anagrafici sono stati cambiati per la tutela
della sua privacy) incontrata da Be free in data 20 novembre 2019, nell’ambito delle attività di
sportello di sostegno psico-sociale effettuate all’interno del CPR e volto all’emersione delle
potenziali vittime di tratta. La signora, entrata presso il CPR nel novembre 2019, ha raccontato
alle operatrici di essere stata reclutata in Nigeria nel 2014 da una donna di nome Queen , che ,
approfittando della sua condizione di vulnerabilità, le ha proposto una vita migliore in Europa,
promettendole un lavoro che le avrebbe garantito una vita dignitosa e dicendole di avere un
fratello che avrebbe potuto aiutarla in quanto già domiciliato in Italia. Prima di partire è stata
sottoposta a rito juju durante il quale ha giurato che non avrebbe detto a nessuno quello che le
stava accadendo, pena la sua morte. Arrivata in Italia via mare, è stata portata in un CARA, dove
ha fatto richiesta di asilo; in Commissione è stata costretta a raccontare una storia scritta per
lei da quest’uomo, che viveva nella stessa regione, e che la controllava e la andava a trovare
spesso mentre lei si trovava nel centro. L’uomo insisteva perché lei andasse via dal centro, ma
la signora è riuscita a prendere tempo, fino a che non è stata diniegata dalla Commissione e,
dovendo lasciare il centro d’accoglienza, si è ritrovata senza altra scelta se non quella di
sottomettersi alla volontà dell’uomo, che l’ha portata in due diverse città, costringendola alla
prostituzione. La signora è stata sfruttata sessualmente per due anni; per tutto il periodo, ha
dato molti soldi all’uomo, tanti da non riuscire neanche a quantificarli. Nel 2017, esausta da
questa condizione, ha trovato il coraggio di fuggire rifugiandosi nella città di Padova, presso
una ragazza nigeriana sua amica, con cui abitava al momento della cattura da parte della polizia
e dell’invio presso il CPR in quanto priva di regolare permesso di soggiorno. Incontrata da Be
free dentro Ponte Galeria, la donna era a rischio effettivo di rimpatrio nel proprio Paese,
soprattutto in seguito alla nuova normativa sulla immigrazione, che ritiene una nuova domanda
di asilo direttamente inammissibile, nel momento in cui si è in fase di esecuzione di un
provvedimento di espulsione. Tramite una segnalazione di Be free a diversi enti istituzionali di
tutela (Garante dei diritti dei detenuti nazionale e della Regione Lazio, UNHCR, Commissione
territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale), questa donna ha potuto
essere riascoltata dalla Commissione territoriale e ora è titolare dello status di rifugiata: da una
situazione di immediato pericolo di rimpatrio è passata quindi all’essere titolare della
protezione più forte che riconosce lo Stato italiano; questo quanto meno dimostra come ci sia
un corto circuito in questo tipo di procedure.
In generale, sottolineiamo la presenza di numerose vittime di tratta e violenza di genere
trattenute all’interno di strutture detentive, che si erano rivolte alle Forze dell’Ordine per
chiedere aiuto ma per le quali queste ultime hanno dato priorità all’accertamento dello stato
di irregolarità, conducendole in questi luoghi e non alle necessità di tutela.

LA CASA DI FUGA
All’emersione e identificazione segue la tutela di queste persone che, a fronte di una situazione
di pericolo, debbono poter essere inserite all’interno di strutture protette ex art. 18. La casa di
fuga gestita da Be Free è aperta ed attiva nella Provincia di Viterbo dall’ottobre del 2016.
Accoglie 5 donne, in fuga dal racket degli sfruttatori e in necessità di accoglienza e protezione,
e a prescindere dal possesso del permesso di soggiorno. L’ospitalità in casa di fuga prevede la
permanenza delle donne sopravvissute a tratta di esseri umani per un periodo temporaneo,
finalizzato all’identificazione di un percorso di sostegno ed emersione dal vissuto di
sfruttamento subito.
Il programma di reinserimento sociale disponibile per ciascuna delle donne ospitate si declina in
diverse macro-aree, che possiamo riassumere come segue:
Prima assistenza: accoglienza della donna nella struttura, inizio della costruzione di una
relazione di fiducia, in cui la donna possa cominciare a sentirsi a proprio agio nel nuovo
ambiente, e che permetta alle operatrici di comprendere in prima battuta quali siano le
esigenze primarie espresse dalla donna, e se la struttura sia consona all’accoglimento di tali
esigenze.
Disbrigo delle diverse pratiche burocratiche: ottenimento del permesso di soggiorno, di
tesserino sanitario, codice fiscale;
Accesso alle cure mediche attraverso l’individuazione del medico di base, accesso a screening
sanitari; accompagnamento per analisi routinarie e per accertamenti ostetrico-ginecologici sia
per gravidanze portate a termine che per gravidanze interrotte volontariamente;
Sostegno psicologico da parte di psicologhe specializzate nel sostegno alle persone uscite dallo
sfruttamento, attraverso colloqui individuali e la creazione ed implementazione di momenti di
incontri gruppali
Supporto legale a cura dell’Ufficio legale della Coop. Be Free, costituito da Avvocate
specializzate nei temi della violenza di genere e dello sfruttamento a scopo sessuale.
Individuazione di un progetto di reinserimento sociale e lavorativo, personalizzato e plasmato
attorno alle risorse ed alle aspirazioni di ciascuna ospite.
Una delle problematiche principali che attiene le case di fuga è il numero esiguo di posti
disponibili sul territorio nazionale, proprio in un momento in cui si registra un aumento
esponenziale di vittime di tratta, soprattutto di nazionalità nigeriana.
Basti pensare che delle 1914 persone che risultano essere state in programmi di protezione
sociale nel 2018, ben 1537 sono di nazionalità nigeriana, con una percentuale pari all’80 % (dati
del Numero verde nazionale antitratta).

I RIFERIMENTI NORMATIVI
Per le donne sopravvissute a tratta i possibili percorsi di regolarizzazione, attualmente, sono di
due tipi: l ’art. 18 d.to leg.vo 286/98 e la possibilità di accedere alla richiesta di protezione
internazionale.
L’art. 18 T.U. Imm. 286/98 prevede un doppio binario per il rilascio del permesso di soggiorno,
allo/a straniero/a che si trovi in situazioni di grave violenza e/o di grave sfruttamento da cui
derivino pericoli per la sua incolumità: quello giudiziario che prevede una valutazione del
Procuratore della Repubblica ai fini della proposta o un parere al rilascio del permesso di
soggiorno, e quello sociale che può essere rilasciato indipendentemente dall’eventuale
collaborazione della vittima nel procedimento contro i trafficanti. Quest’ultimo prevede, infatti,
la concessione del permesso di soggiorno da parte del Questore laddove si accerti la
sussistenza dei presupposti necessari su proposta dell’ente che ha in carico la persona, senza
che quest’ultima renda formale denuncia contro i propri sfruttatori.
Nonostante l’art. 18 sia stato un esempio virtuoso e all’avanguardia in tutto il panorama
europeo di contrasto alla tratta, la sua applicazione è stata discontinua, affermandosi prassi
operative profondamente diverse a livello locale. Nella realtà di Roma e del Lazio, ad esempio, il
percorso giudiziario è l’unico strumento consentito ed applicato e così in molte altre Regioni
italiane. Non si è mai giunti ad una esatta interpretazione della norma né ad una sua uniforme
applicazione, nonostante le numerose Circolari ministeriali emanate e le pronunce del Consiglio
di Stato tra cui quella della Sezione VI del 10 ottobre 2006 n. 6023 che ha precisato come
“l’autorizzazione alla permanenza in Italia per le ragioni di cui all’art. 18 non ha valore
premiale di un contributo dato al corso delle indagini”.
Alcune Procure della Repubblica, talvolta, hanno fondato i rigetti di pareri favorevoli al rilascio
del permesso di soggiorno ex art. 18, sulla circostanza che la vittima non corresse alcun pericolo
“grave ed attuale”, disconoscendo di fatto un elemento comune a tutte le vittime, ed idoneo a
sostenere, in ogni caso, la sussistenza dell’attualità del pericolo ossia l’elevato rischio di retrafficking.
Altre Procure, invece, rigettano le richieste di parere favorevole al rilascio del permesso di
soggiorno in questione all’esito di indagini preliminari che non hanno dato il risultato sperato.
Indagini che però, spesso, vengono attivate con notevole ritardo rispetto al deposito della
denuncia-querela da parte della vittima e che hanno una durata spesso incompatibile con la
costante mutevolezza delle forme e la fungibilità delle modalità di azione poste in essere dagli
sfruttatori.
Oggi si riscontra in generale una visione delle vittime meno protettiva rispetto al passato
quando il parere favorevole era la risposta dello Stato alle esigenze di protezione della vittima,
e più condizionata ad una rigida verifica della sua credibilità, già in fase investigativa.
La fluidità e l’estrema mutevolezza delle forme di tratta determina infatti una serie di criticità
che si riflettono processualmente sul perseguimento del reato. Spesso la lentezza con cui si dà
avvio alle indagini preliminari determina l’impossibilità di raccogliere elementi di prova per
sostenere il giudizio e registriamo un numero alto di richieste di archiviazione per mancanza di
elementi di riscontro alle dichiarazioni rese dalle vittime. E’ dato comune che i trafficanti si
spostino sul territorio nazionale cambiando città, al fine di immettere le vittime su nuovi
mercati, in quanto è fatto notorio che una donna sulla stessa strada dopo alcuni mesi renda di
meno che nella fase iniziale, e che tali frequenti spostamenti impediscano di rintracciare gli
sfruttatori. Anche per questo motivo, sono poco numerosi i processi per tratta che si aprono sul
territorio nazionale e spesso anche all’esito del giudizio penale si assiste a una derubricazione
del reato di tratta nel reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, reato
minore, che, realizzandosi sul territorio italiano, è più facile da perseguire.
L’impossibilità di raccogliere elementi di prova sul reato di tratta deriva anche dal fatto che la
tratta è reato transnazionale ossia un reato che si esplica in diversi territori (Nigeria, Niger, Libia
e poi Italia), violando le disposizioni di legge di diversi Paesi, con i quali spesso è impossibile fare
accordi relativi alla cooperazione giudiziaria, anche perché si tratta spesso di Paesi che non
rispettano i diritti fondamentali degli esseri umani.
Riteniamo quindi che anche gli accordi che l’Italia ha firmato in passato con Paesi quali la Libia
siano dannosi in termini di tutela dei diritti umani e prevenzione del fenomeno della tratta. Non
ci sembra sufficiente che il governo si riprometta, proprio in questi giorni, di operare revisioni sul
Memorandum siglato con la Libia: riteniamo che esso vada assolutamente cancellato.
Ritornando all’art. 18, dopo 20 anni di applicazione, soprattutto nell’ultimo quinquennio, l’art.
18 ha subito una grave compressione, conseguente alle politiche migratorie di tipo restrittivo
attuate in Europa ed in Italia che hanno fatto sì che la tratta non fosse più considerata una
priorità rispetto alla immigrazione clandestina ed al nascere di nuove strategie criminali,
generate dalla necessità di adattarsi alle misure restrittive degli Stati di destinazione.
La richiesta di protezione internazionale è un altro tipo di procedura volta alla regolarizzazione
e alla tutela delle vittime di tratta. Si può certamente affermare che, a seguito del meccanismo
di collaborazione tra enti antitratta e Commissioni territoriali, sia aumentato il numero sia dei
casi segnalati alle associazioni da parte delle Commissioni ( dal 1 marzo 2019 fino a oggi sono più
di 500 le richiedenti e i richiedenti asilo che sono state inviate dalla Commissione per
l’identificazione formale come vittime di tratta da parte delle Associazioni nella sola regione
Lazio) sia delle protezioni decise dalla Commissione, che fino al 2015 non sembrava
minimamente avvezza alla comprensione degli eventuali indicatori di vittima di tratta delle
persone sottoposte ad audizione da parte della Commissione, e che invece dal 2015 appunto
stabilisce un ponte con gli enti antitratta, per la eventuale presa in carico delle vittime . Questo
ha portato a un aumento ingente di prese in carico da parte degli enti antitratta, che spesso con
le poche risorse economiche a disposizione non riescono a far fronte a tutte le richieste, sia all’
aumento delle donne vittime di tratta titolari dello status di rifugiata all’interno del sistema di
accoglienza SIPROIMI (EX SPRAR), che spesso non è attrezzato a questo tipo di accoglienza.
Se da un lato il lavoro fatto con le Commissioni territoriali e il recentissimo sportello “spazio
protetto” inaugurato grazie alla collaborazione tra le Magistrate della XVIII sezione del
Tribunale ordinario di Roma e gli enti antitratta ha permesso di potenziare il sistema di referral
consentendo di far emergere nuovi casi di tratta anche tra le persone richiedenti asilo,
dall’altro la situazione politica attuale (l’esistenza dei Centri di detenzione e dei CAS, spesso
luoghi promiscui e privi di operatori specializzati sul tema) ha determinato uno svuotamento
nella possibilità di garantire una tutela piena ed efficace a queste persone: una volta emerse
come vittime di tratta, dove inserirle, se i posti sono pochi e molto spesso non consoni
all’accoglienza delle persone vulnerabili?
A peggiorare la situazione, l’introduzione di norme contenute nei due decreti Salvini, che hanno
avuto ripercussioni dannose sul sistema d’ accoglienza: ad esempio l’impossibilità per il
SIPROIMI di accogliere donne ancora nella procedura di richiesta di asilo, condannandole a
permanere nei CAS fino alla pronuncia da parte delle Commissioni. CAS che rappresentano
luoghi di effettivo rischio per le persone che vengono intercettate all’interno di questi centri dai
trafficanti e condotte nei luoghi dove avverrà lo sfruttamento e che, in seguito
all’abbassamento del costo procapite per ogni migrante, non garantiscono l’integrazione di
queste persone nel tessuto sociale, ma determinano un peggioramento delle condizioni di vita
di soggetti vulnerabili.

IL SOSTEGNO LEGALE NEI PROCEDIMENTI PENALI A SEGUITO DI DENUNCIA QUERELA
CONTRO IL RACKET DELLO SFRUTTAMENTO.
Quando si riescono a superare gli ostacoli relativi alla difficoltà di aprire i processi, e si riesce
quindi a incardinare i procedimenti penali per il reato di tratta e/o sfruttamento, si verificano
altri tipi di criticità, che andiamo adesso ad approfondire. Molto spesso l’ufficio legale di Be
free nel lavoro di assistenza processuale alle vittime ha registrato la mancanza di uniformità,
all’interno dei diversi tribunali sul territorio nazionale, di strumenti processuali previsti per le
audizioni protette, prevalentemente in fase di incidente probatorio. Ad esempio molti tribunali
sono sforniti di impianto audiovisivo, o di un numero adeguato di paraventi per impedire alla
vittima la visione dell’aula dove potrebbero essere presenti i suoi sfruttatori.
Quando poi assistiamo all’apertura di processi per tratta, dovuti spesso alla sensibilità e
competenza del singolo magistrato, e quindi al loro esito positivo, assistiamo comunque alla
mancata applicazione di strumenti previsti all’interno del nostro codice di procedura penale,
quali il sequestro conservativo in favore delle vittime, finalizzato all’effettivo conseguimento
del risarcimento del danno. Questo avviene sia perchè il racket dello sfruttamento tende a
convogliare tutti i proventi illeciti verso il paese di provenienza, attraverso sistemi di Money
Transfer che non permettono la tracciabilità dei flussi finanziari, e quindi spesso non vi sono
beni sul territorio nazionale da sequestrare, sia perché il nostro sistema penale non si è dotato
di ulteriori strumenti e quelli a disposizione, quali il sequestro conservativo, spesso non
vengono comunque utilizzati.
A ciò si aggiunge la inadeguatezza dell’attuale sistema di indennizzo previsto per le vittime di
tratta, introdotto dal decreto legislativo 24/2014 art. 6; tale inadeguatezza è dovuta in primo
luogo alla difficoltà di accesso all’indennizzo perché la vittima deve farsi carico di una procedura
burocratica farraginosa e costosa; tale indennizzo inoltre è pari a una cifra di 1500 euro, cifra
irrisoria ed offensiva rispetto alla gravità dei danni subiti dalle vittime; infine, la legge
sull’indennizzo addirittura prevede che tale somma venga detratta dai finanziamenti stanziati
per i programmi di protezione, che già, come sopra detto, sono insufficienti.
A livello generale, il Rapporto 2019 sulla tratta di esseri umani del Dipartimento di Stato Usa
( una delle fonti più autorevoli in questo campo) declassa l’Italia dal livello 1 al livello 2,
affermando che “le autorità italiane non soddisfano appieno i criteri minimi per lo sradicamento
della tratta di esseri umani, ma stanno facendo importanti sforzi in tal senso, per esempio
attraverso un incremento dei fondi per l’assistenza alle vittime e la collaborazione internazionale
sulle azioni giudiziarie. Tali sforzi, tuttavia, non sono seri e costanti come quelli messi in atto nel
periodo oggetto del precedente rapporto. Nonostante l’impegno del Governo e gli sforzi per
smantellare le reti di trafficanti di persone, c’è stato un calo del numero di arresti e indagini
rispetto al precedente rapporto. Le organizzazioni non governative (ONG) e le organizzazioni
internazionali segnalano alle autorità un gran numero di vittime di tratta di esseri umani, ma le
autorità non valutano in modo sistematico i rischi per le vittime potenziali prima di procedere a un
rimpatrio forzato o a un’espulsione verso Paesi dove le vittime potrebbero trovarsi ad affrontare
rappresaglie o privazioni. Non esistono norme legali che tutelino le vittime dal rischio di incorrere
in sanzioni per atti illeciti che i trafficanti le hanno costrette a commettere. L’Italia è stata pertanto
retrocessa in classe 2.” ( https://it.usembassy.gov/it/rapporto-sulla-tratta-di-esseri-umani-2019/ ).