L’Essenziale. Per uscire dalla violenza il reddito di libertà non basta

Scrollini (BeFree): ripartire dal lavoro e dalla casa

Per lasciare la casa del maltrattante serve un reddito, eppure nel 2021 solo il 40 per cento delle donne accolte nelle strutture antiviolenza aveva un’occupazione. “Per favorire l’inserimento lavorativo sono proposti tirocini, borse lavoro, corsi di formazione, attività di orientamento e tutoraggio, che spesso però non riescono a soddisfare i bisogni specifici di chi esce da una relazione violenta”, osserva Federica Scrollini, operatrice del centro antiviolenza BeFree di Roma. “Per le mamme sole, per esempio, c’è il problema dell’accesso agli asili nido: laddove le strutture pubbliche non hanno abbastanza posti, è necessario rivolgersi ai privati, che però costano molto. E poi c’è la questione degli spostamenti: tante non possono permettersi un’auto e questo gli impedisce di accettare impieghi nelle aree dove i trasporti pubblici sono carenti”.

Collegato al problema del lavoro c’è quello della casa: le donne che escono da una relazione violenta spesso fanno fatica a pagare una caparra o un affitto, ancor peggio un mutuo. Ecco perché hanno una probabilità quattro volte superiore di vivere situazioni di disagio abitativo: sono costrette a traslochi frequenti, abitano in stanze in nero, subiscono sfratti o si trovano a vivere in alloggi sovraffollati, in alcuni casi insieme ai figli.

Alcune finiscono anche nei dormitori per persone senza dimora: è il caso di Carmela, che a più di 50 anni si è trovata a essere ospitata in una struttura per senzatetto a Roma, dopo essersi allontanata da casa in seguito all’ennesima aggressione del partner. “Quando ci ha contattato, Carmela non aveva un lavoro e non voleva chiedere aiuto ai figli che vivevano lontano”, racconta Federica Scrollini. “Alla fine ha superato la vergogna ed è tornata in Puglia dalla sorella. Chi può si rivolge alla famiglia d’origine, chi non può si affida ai centri antiviolenza, che ripiegano su eventuali prolungamenti della permanenza delle donne in case rifugio, in case di seconda accoglienza o in altre sistemazioni temporanee”.

È quello che ha fatto Fatoumata, che dopo aver lasciato il marito non sapeva dove andare insieme ai suoi tre figli minori. Fatoumata viene dall’Africa, non ha parenti in Italia e non poteva chiedere aiuto alla comunità del suo paese presente in città, per paura di essere rintracciata. L’unica opzione per lei era la casa rifugio. “S’intersecano quasi sempre diverse fragilità”, conclude Scrollini. “I problemi economici si sommano a quelli abitativi, psicologici e sociali. Senza un intervento strutturale, le donne che vogliono uscire da una relazione violenta incontreranno sempre enormi ostacoli per ritrovare la propria autonomia”.

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